Recensioni

Le migliori recensioni ai libri delle Edizioni Setteponti

L’Amore è una guerra

Martin Palmadessa (Edizioni Setteponti, maggio 2021)

La poetica della parola come diga alla guerra della vita e dell’amore per e tra gli uomini nell’opera L’amore è una guerra di Martin Palmadessa

di Salvatore La Moglie

L’opera di Martin Palmadessa L’amore è una guerra, uscita di recente nella collana poetica delle Edizioni Setteponti di Enrico Taddei, con significativa Prefazione della poetessa e critico letterario Lia Bronzi e notevole Postfazione dello stesso editore, costituisce, a nostro modo di vedere, una novità nel panorama letterario degli ultimi anni. E questo sia per il contenuto che per lo stile che richiama, come si è fatto notare, il modo di poetare dei simbolisti francesi del secondo Ottocento (Rimbaud, Verlaine, Mallarmé nonchè del loro padre spirituale Charles Baudelaire) come pure quello della Beat Generation americana degli anni Cinquanta del Novecento. Insomma, c’è, nelle poesie di Palmadessa, qualcosa che richiama, che ci riporta a un certo maledettismo sia francese che americano e  potremmo aggiungere che talvolta lo stile del Nostro ci ricorda anche il modo di poetare di Jacques Prevert.

L’amore è una guerra, recita il titolo, ma si sarebbe anche potuto intitolare: La vita è una guerra, perché, in verità, è poi questo il messaggio implicito che l’autore vuol trasmettere: la vita è una lotta, è una guerra sin dal primo momento che veniamo gettati nel mondo (direbbe Heidegger) e questa guerra, questa lotta è durissima, spietata, sanguinolenta, crudele, soprattutto in tempi di mondo globalizzato, nel quale la parola poetica appare sempre più ai margini e sempre più clandestina. Ma il vero poeta non demorde, non rinuncia alla sua lotta, non rinuncia a combattere la sua guerra non foss’altro perché – come direbbe Albert Camus – egli è un uomo in (continua!) rivolta: un uomo che dice no, ma questo non significa che rinunci. E, infatti, Palmadessa non rinuncia e armato di simbolico elmetto, impugna la penna e mette nero su bianco. A dargli forza e coraggio è l’amore: l’amore per la donna che ama, l’amore per la vita, l’amore per gli uomini e, soprattutto, l’amore per la poesia, l’amore per la parola poetica che viene vista come unica barriera, unica diga al male che regna nel mondo e che condiziona le nostre esistenze, tanto da renderci fragili e facili a cadere vittime anche di noi stessi, dei nostri involontari errori, delle nostre più innocue intenzioni. Questo ci sembra il significato che si coglie in alcuni versi della poesia che dà il titolo alla silloge: Dovunque ti giri, comunque tu ti muova farai dei danni, / vetraio. E non sei infrangibile. / Metti il cuore in una teca antiproiettile e verrai fulminato dal / killer delle tue intenzioni più dolci. / Sei morto a prescindere. / Il killer sarai stato sempre e comunque tu.

Intanto, la guerra continua, tra volontà-necessità di cancellare emozioni passate e vecchi ricordi: Perdevo sempre. / A Risiko invece no / non perdevo mai le mie stesse armate /  pareggiavo sempre le guerre / con me stesso / non finendo mai una partita. Così si legge nella poesia La mia guerra, guerra che prosegue anche nella visione dei barboni (San Francisco) lì sulla strada, sul / cavalcavia della vita, / sul viadotto del Nulla. E (in Ali di gabbiano) la lotta prosegue con questi versi: Respiri dolori di sale / e profumo di squali. / Sei l’esca / la carne / la preda, ma alla fine un sorriso di vittoria si afferma sulle labbra del poeta-gabbiano: Sorridi e poi spieghi le ali: è riuscito a vincere la battaglia: è riuscito a spiccare il volo, il volo che salva e rende liberi. Ne La punizione di Dio il poeta dice a se stesso: E dormi da sveglio / e i sogni sono come dei pesci / imprendibili: si vorrebbe poter sognare in mezzo a tanta guerra e vedere i sogni come realtà, ma non è possibile e ci si accorge che intanto il tempo scorre inesorabile e che anzi sembra essersi stancato anche lui di passare, di scorrere: Guardo / il mio orologio e / non ha più/  lancette (L’illusione del tempo). Intanto, Il dolore del mondo preme e il poeta, pur nell’inquietudine che l’opprime, sente di non demordere: Gocciolo di inquietudini / senza staccare / la spina dello sguardo  /    sul mondo, perché: La vita è meravigliosa / in ogni attimo / perennemente in bilico. E, l’io narrante, non può fare a meno (in Alea iacta est) di riflettere sul fatto che, a volte, nella nostra vita, in un secondo, in un attimo, appunto, si può decidere un mondo, si può decidere sul destino di milioni di uomini, persino dell’umanità intera. È stato un attimo a far decidere  Giulio Cesare a varcare il Rubicone con tutte le conseguenze che poi ci furono: Colui che sarebbe diventato un / dittatore    era un uomo. / In un secondo / ha scritto la storia. Intanto, si deve prendere atto che, nella guerra della vita e dell’amore, gli abbracci mancati / sono ombrelli chiusi / mentre sta piovendo (La vita vera) e che i colpi delle gocce sulle pozzanghere sembrano / bastonate inquietanti sulla terra della Vita (Bronzo & rose). E si sa che la vita impone delle Scelte e che dunque: Chi ha le ali deve solo / volare chi non le ha deve / solo vivere   e schivare il fango.

Nonostante la guerra sia finita nel 1945, il poeta è costretto a prendere dolorosamente atto che la Guerra della vita e anche della morte, la guerra della nostra resistenza continua sempre ad essere combattuta (magari lottando contro una crudele pandemia o qualsiasi altro invisibile nemico): Siamo fuori dal 1945 / eppure in guerra / senza bombe / senza aeroplani / senza aquiloni. / Ma siamo in trincea. Siamo in guerra ma non dobbiamo perdere la nostra tensione verticale, la nostra tensione verso la salvezza e la vittoria finale: Si deve tornare a volare. / È questione di volere: si deve sempre sognare di volare e di vivere e vincere, ma occorre volerlo. E non va bene se la terra mostra i denti e tu sorridi / appeso all’altalena del tuo cuore (Amore e tempo) e si deve prendere atto che: Devi staccarti dai cuori di pietra / (perché) diversamente verrai lapidato (Battito impietrito).  Siamo sempre in guerra, questa è la cruda realtà: Siamo in guerra / gli obici sferzano / i cannoni ti bersagliano / la gente si divide da sola. / Le bombe arrivano dal basso / arrivano da dentro. / Osservi questo dolore viola / con il cuore spappolato / per il mancato rumore / delle parole dolcissime / coronate dalle museruole / che nemmeno permettono baci (Guerra fredda).

La guerra della vita e la guerra dell’amore: si perde e si vince, in entrambe. Alla fine, l’io narrante ammette la propria resa incondizionata alla donna che ama e se ha preso l’anima di lei ha perso per sempre la sua e, per questo, la ucciderebbe (Ti ucciderei). E mentre la guerra prosegue, al poeta non resta che concludere con un lascito morale e culturale per il proprio figlio, che un giorno (Arriverà quel giorno), magari leggerà un libro di poesie del padre, quelle poesie con cui ha resistito, con cui ha combattuto la guerra della vita e dell’amore per e tra gli uomini: E d’improvviso ti sorrideranno / le foglie del ciliegio / e tu sentirai / da un lieve fruscìo delle foglie / che noi siamo ancora lì / a far poesia.

 

Contatti con l’intimo

Sante Serra (Edizioni Setteponti, giugno 2021)

In osmosi costante il mondo e il sé

di Maria Beatrice Di Castri

Una sfida a raccontare, con parole semplici ma efficaci e mai banali, e torniture espressive ritmicamente compiute tra modernità e tradizione, i sentimenti e le esperienze tanto comuni quanto estreme, l’amore nelle sue varie forme (di amante, di figlio, di padre), la perdita, l’assenza, il rimpianto: così ci viene incontro la poesia di Sante Serra, che scaturisce da una incessante capacità di sguardo; una poesia che sa stare in equilibrio sul filo che attraversa la tragedia così come la dimensione della quotidiana normalità perennemente aperta a piccoli o grandi squarci di sublime.

Composita e ricca la prima e più lunga sezione, che si muove tra la celebrazione degli affetti, dei ricordi, delle esperienze di vita, dove l’io lirico è sempre in ascolto di sé e del mondo, non risulta mai debordante ma sempre sensibile e ricettivo.

Colpisce la struggente tenerezza di Bucaneve a primavera, intessuta di nostalgia e incerta speranza, il dolore della separazione dei “ baci soffiati sul palmo della mano” – Viverti a fotogrammi – ,  o della figlia che in futuro cercherà le tracce dell’io lirico “nei miei cassetti” e nella contemplazione del giardino; ma anche la gioia palpitante delle emozioni descritte nei versi di Pausa pranzo, testimonianza di un promettente incontro; o le incursioni nella cameretta della figlia ormai distante “nove ore dal bacio della buonanotte”, e la propria infanzia “in bianco e nero” rievocata.

La poesia si apre alla memoria del padre che diventa messaggio civile ripercorrendo la tragedia della guerra, la “guerra dei poveri” (avrebbe detto Nuto Revelli), per cui i fasti bellici erano solo “labbra crepate, sete, dissenteria” nell’inferno di El Alamein – , e dove essere eroi significava diventare solo “croci nella sabbia” (viene in mente la dissacrante Ballata dell’eroe di De Andrè). Ed è struggente – ancor più perché parco di patetismi – il commiato dallo stesso padre, o dalla madre, rievocata nella quotidianità dei suoi gesti ed affetti in Quel giorno assolato di novembre, dove fu sperimentato “il peso vuoto del dolore”.

Non di rado, nelle pacate cadenze dei versi, ritroviamo la ricerca quasi petrarchesca di un locus amoenus, fatto della semplicità dei fili d’erba, e di “zolle senza tempo”, dove tuttavia la nostalgia non cessa – analogamente all’Amore di Petrarca – di dialogare con il poeta.

Se in Autunno nel borgo antico si fa, per osmosi, “antico” e classicheggiante anche il linguaggio – procella, orezzo, vetusto –, tra Leopardi e Dante, eminentemente petrarchesco è il tono di Un passo dopo l’altro, dove il cammino, ritmato in versi brevi (settenari, ottonari, senari) invita allo scavo interiore, ne scandisce le tappe attraverso l’osservazione del paesaggio, fino allo spazio “tra foglia e foglia dove / la quiete trova dimora”.

Quella di Serra è così una poesia che celebra la mutevolezza delle cose – ché Il mondo muta – e insieme la persistenza degli affetti, nutrita, per citare Saba, di “doloroso amore” per la vita nel trascolorare delle stagioni, della natura e della nostra esistenza; celebra la promessa di un rinnovato sorriso a “fine giornata”, l’evocazione del gioioso intreccio dei corpi nel Sostizio destate, la semplicità rassicurante della piracanta e delle sue bacche, “rosse e accese emozioni / di fine estate”, il misterioso incanto del vento d’autunno “che spira dal nulla / agita le foglie, poi le culla”. L’apertura al misticismo religioso, con la passione di Cristo rievocata, tra parole incisive e semplici, in “un silenzio che odorava di aceto”, si abbina all’attenzione per la più derelitta umanità: per il clochard dignitoso, che cerca un giaciglio di fortuna “sotto una coltre di cartone”, in compagnia della “fiaba della sua ribellione”; per il pittore Ligabue – Dammi un bacio – , i cui silenzi “sfociavano / dalla quiete all’uragano”, straziato da un perenne bisogno di amore. E ancora  per gli affetti più stretti, come il padre, che serve con gentilezza – Signora mia bella, desidera? dal bancone, la saracinesca della bottega che si apre, lodore del pane e del formaggio, la fresca semplicità del “panino alla mortadella” donato al figlio incantato. E suona particolarmente toccante la parola poetica quando, di fronte allo strazio della malattia di Alzheimer, cerca di rimarginarne la spersonalizzazione e il disorientamento, dando voce alla persona che, “sopiti per un istante i demoni” e ricambiato il sorriso, pare chiedere “ricordami chi ero; o il delicatissimo ricordo del fratello,  – “mingherlino, pelle e ossa, ma agile e / instancabile gazzella” –, abile giocatore di pallone Quando il campo era strada bianca e i ragazzi si divertivano con fantasia senza bisogno di appendici tecnologiche; o il pensiero tenero per le coppie di anziani che si tengono a braccetto per “scacciare la paura di cadere”, ormai prossimi alla “traversata notturna”. Né si perita di raccontare il bagliore di speranza che si riaccende dalla terapia intensiva.

E ancora poesia che si fa denuncia: ne La strada del dolore, contro la violenza sulla donna, umiliata dagli amplessi seriali e forzati “sui marciapiedi di periferia”, dopo tanta deprivazione affettiva subita in casa; in Chiediamolo al mare, denuncia contro l’inquinamento ambientale che devasta il pianeta con “onde velenose” e “isole di plastica”; o denuncia contro la guerra, contro “i boati delle bombe”, che riempiono Mosul del pianto degli orfani.

Nella sezione Dalla paura alla rabbia l’autore testimonia, con una triade di liriche di grande pregnanza, il dramma della emergenza sanitaria: lo sconcerto suscitato, le reazioni, le ritualità – le vediamo riepilogate nella cantilenante Noi che… marzo 2020 – lasciano spazio, in Mai come ora, alla meditazione sul tempo sospeso, in cui si scopre “persone uguali”, nel comune anelito di un mondo guarito dove “ dove stringersi forte la mano / riprendersi a pieno la vita / lasciarsi accarezzare dal sole”, e in Vuoto ala perdere alla riflessione sulla morte prefigurata e possibile, toccata con mano nella bufera della pandemia, e la speranza di poter guardare presto gli affetti in viso, potersi di nuovo stupire del sorriso, di quel “conforto ora negato per divieto”.

Nel polistilismo dell’autore trova quindi spazio anche il vernacolo bolognese, che guida il poeta mentre ritrae piccoli quadri (ma senza indulgere a tentazioni oleografiche) delle sue Radici (titolo della sezione): dai più solenni, la basilica di San Petronio, “sovrana della piazza”, ai più umili, come Padre Marella campione di solidarietà circondato dal suo stuolo di per i puvrétte i barbàn, o il vecchio protagonista della ariosa e insieme struggente lirica Un abrâz dal vänt (Un abbraccio del vento) – forse la più riuscita della breve silloge dialettale – .

Il tono si fa epico ed evocativo, un’epica dimessa, antieroica ma non meno intensa, nella poesia “Monte San Giovanni” dedicata al cantante e cabarettista Dino Sarti, avvertito come una sorta di aedo e di mentore.

Parole dirette, che a volte rasentano la prosa o la salmodia, impastate però non di rado di impennate liriche di pura bellezza: una poesia senza orpelli, aderente alla sua piena onestà semantica, testimonianza sincera di una piena osmosi tra il mondo esterno, fatto di incontri, di presenze, di luoghi, e l’interiorità del poeta.

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